A 6 mesi era già sul set, poi radio cinema, teatro e TV fino alla Contessa de “Il Paradiso delle Signore”: Vanessa Gravina si racconta a Teatro.it
La contessa più amata (o detestata) d’Italia. Vanessa Gravina nella fiction televisiva “Il Paradiso delle Signore” interpreta la bellissima e algida contessa Adelaide di Sant’Erasmo, con milioni di telespettatori ogni giorno e un acceso fan club.
Dato che in tv ha fatto prodotti di successo come La Piovra, Incantesimo, CentoVetrine, Gente di Mare, Butta la Luna, Furore e altri ancora, i suoi fan sono portati a considerare Vanessa Gravina soprattutto come attrice da televisione. In realtà il teatro ha avuto un ruolo fondamentale nella sua storia professionale. Basti dire che il debutto sul palcoscenico lo ha fatto a 17 anni con La donna del mare, di Henrik Ibsen, nel 1991: e alla regia c’era un certo Giorgio Strehler. Ma ha fatto anche Euripide, Sofocle, Pirandello, Eschilo, Plauto, Strindberg, Shakespeare, Neil Simon, Aristofane, Molière, Agatha Christie.
“Questo se parliamo di teatro – precisa Vanessa Gravina – In realtà la mia prima esperienza cosciente nel mondo dello spettacolo è stata con la trasmissione Torno Subito di Diego Cugia su Radio 2: avevo 7 anni, trasmettevamo da corso Sempione a Milano. Con me c’erano Lella Costa, Angela Finocchiaro, Massimo Catalano. Facevamo un coretto di ragazzini che ballavano, mi sono divertita un sacco”.
In che senso esperienza cosciente?
Perché a sei mesi ero già sul set per una pubblicità di passeggini: ma non avevo deciso io di esserci.
Comunque una vita da predestinata. Pure in TV c’è stato un inizio col botto.
Beh, si. Il mio incontro con la televisione è stato a 12 anni con un grande come Alberto Lattuada. Ho fatto Due Fratelli, un TV movie con Massimo Ghini. Diciamo che ho iniziato subito con il carico da 11, come dicono a Roma: tutto di altissimo livello, con relativo impegno richiesto anche se ero ancora una bambina.
Non è stato un avvicinamento graduale.
No, ma in questo ambiente era più o meno inevitabile. La Milano di quegli anni era tutto un pullulare di cose artistiche. Ogni 50 metri c’era uno studio di qualcosa.
Diciamo che la bellezza l’ha aiutata.
E chi lo nega? Tra la fine degli anni 70 e la metà degli anni 80 ero una bambina mora, con gli occhi verde mare, che faceva le copertine di Vogue. Ero una bambina glamour, anche se involontariamente. Ho posato per i più grandi fotografi: Fabrizio Ferri, Richard Avedon, Angelo Frontoni.
Baby vanità femminile alla grande.
Mica tanto. Non sopportavo fare la modella per i fotografi: invece mi divertivo a fare i caroselli, le pubblicità, dove i bambini si muovevano e correvano. Anche perché ero una bambina normalissima, con una grande passione per la musica, portata per gli sport. Però indubitabilmente il fatto di essere abituata a stare sotto l’obiettivo, mi ha aiutato a fare il salto verso il cinema e la TV. E così mi sono ritrovata a fare il primo film Colpo di Fulmine di Marco Risi nel 1985; due anni dopo è arrivato Maramao con la regia di Giovanni Veronesi e la sceneggiatura del fratello Sandro. Con me c’era Francesco Nuti.
Sempre grandi nomi.
In effetti anche il regista dello spot sui passeggini era Paolo Taviani.
Lei si è espressa sempre al top: cinema, TV, teatro. Ma è realistica una vita così perfetta?
Non è stata perfetta manco per nulla. Per anni ho avuto sensi di colpa e sensi di inadeguatezza, più o meno a casaccio. Avere un bell’aspetto non è sufficiente per sentirsi al posto giusto nel momento giusto.
E adesso?
Adesso, alla mia età, mi sono stufata e dico chi sono e cosa penso.
Com’è Vanessa Gravina da spettatrice?
Come a tutti, mi è capitato di vedere del brutto teatro camuffato da teatro di qualità. Film annunciati di serie A e invece erano di serie Z. Mi è capitato di essere sorpresa dalla TV, e ritrovarmi a pensare guarda che carina ‘sta cosa. Il preconcetto uccide il nostro mestiere e imprigiona l’animo dell’attore.
Addirittura?
Certo. Se non stai attento rimani chiuso in una gabbia di cliché. La grande capacità di un buon attore è quella di portare in scena o sul set chi sei veramente, con la tua crescita, la tua scuola, la tua intelligenza e sensibilità. Cerchiamo di fare bene quello che facciamo, con tutta la nostra storia. TV culturale, TV commerciale, cinema, teatro: la tua efficacia come attore, il lavoro ben fatto, la qualità di ciò che fai dipende da come lo fai, non dal contesto che ti circonda.
Quindi il buon attore è quello che mette lo stesso impegno per due spettatori in una sala periferica e nella fiction da milioni di fan?
Esattamente. Ne sono convinta nel profondo, altrimenti soccomberei ogni volta che metto piede sul set. Senza perdere il contatto con la realtà, però.
E cioè?
Beh chi ha inventato la penicillina ha responsabilità e meriti maggiori delle mie. Noi cerchiamo di rappresentare l’intelligenza e le emozioni umane, gli altri salvano vite o costruiscono il futuro.
Mai pensato di fare altro?
Non ho mai avuto neppure il tempo di pensarci. Ci sono stati periodi in cui la vita mi ha portato via, lontano, per esperienze sentimentali personali: però anche li mi riagganciavo sempre a questo mondo dello spettacolo. Come a metà degli anni 90, quando sono andata in Francia. A pensarci adesso, credo che se non avessi fatto l’attrice mi sarebbe piaciuto occuparmi di animali.
Un debutto con Ibsen e Strehler non può che segnarti a vita.
Si, ma l’ho capito dopo: in corso d’opera mi sono resa conto del livello in cui ero immersa. Sapevo di essere nel tempio del Teatro, ma questa cosa che si respirava là dentro all’inizio l’ho recepita un po’ da primitiva. Piero Sammataro mi ha insegnato la dizione; avevo un professore che mi insegnava a suonare Grieg al pianoforte. Queste nozioni di altissimo livello che venivano instillate prova dopo prova… mi sono abbassata la cresta da sola. Comunque vorrei sottolineare che non ero proprio una selvaggia: venivo dalla Piovra con Michele Placido, una serie TV importante, e guadagnavo bene.
Com’è stato il rapporto con Strehler?
Mi mandò una lettera meravigliosa, molto personale, mi viene ancora oggi la pelle d’oca a pensarci. “Non perderti nei meandri di un brutto teatro – mi scrisse insieme ad altre cose – Poi inesorabilmente andremo”. Lo ringrazio ancora per avere capito il mio momento agli inizi della carriera.
Autori, registi e attori teatrali preferiti da spettatrice?
Pirandello è mistery thriller, suspence, coscienza. Ma sono aperta anche ad altri. Jon Fosse riesce a catturare e raccontare la solitudine del Nord. Poi Edward Bond, ma dipende da chi lo mette in scena. Michele Di Mauro è un attore di teatro strepitoso. Indimenticabile il Riccardo III di Paolo Pierobon. Idem Kim Rossi Stuart ne Il Visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt con la regia di Tonino Calenda.
Invece i registi con cui ha lavorato?
Ho imparato con tutti, con molti è stata una illuminazione: ciascuno di loro mi ha dato qualcosa. Con una regista di cinema e non di teatro, come Liliana Cavani, ho fatto a teatro Il piacere dell’onestà: io volavo. Un altro è stato Walter Manfrè, che purtroppo è mancato pochi mesi fa. Con lui avevo fatto Rudens di Plauto e Vestire gli ignudi di Pirandello, con i bellissimi costumi di Silvia Polidori: purtroppo mancata anche lei. Di recente c’è stato l’incontro con Roberto Valerio, una creatura che ama profondamente il teatro per attori e che fa un teatro di regia molto interessante.
E persone con cui vorrebbe lavorare?
Valerio Binasco, un bravissimo attore oltre che regista. Ci siamo sfiorati più volte. Una volta si parlava di fare insieme Il gioco delle parti, ma poi la cosa è sfumata.
Un fenomeno in espansione…
Quello degli attori-registi, dice? Sì, ed è una cosa che mi piace molto. Conosci il materiale attoriale dall’interno, perché sei anche attore. Quindi il lavoro diventa una bellissima alchimia, diventa molto interessante. Amo i registi-attori.
Recentemente è mancata Paola Gassman, so che vi conoscevate
Si, una persona squisita. Una volta facemmo un reading a quattro voci: Ugo Pagliai, Paola Gassman, io ed Edoardo Siravo, con la regia di Arnaldo Ninchi, a Orvieto. Facevamo le prove a casa di Edoardo, a Orvieto. Ricordo il rapporto tra Ugo e Paola, la gentilezza, la delicatezza, la sensibilità. Roba di un altro pianeta.
Oggi però c’è la famosa contessa, milioni di telespettatori al giorno.
Ho un grande amore per il personaggio di Adelaide, la contessa saggia e terrificante al tempo stesso. Sul set la adoriamo tutti. E’ molto faticoso, mi faccio un mazzo così a interpretarla. Dietro c’è un enorme lavoro, mesi di riprese, 80 pagine di copione da imparare a memoria ogni volta. Devo trovare una buona onda di entrate e uscite: è un personaggio enigmatico fatto di presenza e assenza. E’ una donna fuori dal tempo, un personaggio shakesperiano, platoniano e sofocleo allo stesso tempo. Ogni volta che entro nel personaggio è come se fosse la prima volta. Ogni giorno mi travesto da questa donna che a dispetto dalle apparenze è moderna, progressista. Parla di divorzio e aborto nel 1964. Devo indossare gli abiti mentali, oltre che i costumi di scena. A ripagarmi delle fatica c’è l’enorme affetto del pubblico.
E come mai hanno scelto proprio lei?
Avevo lavorato con il regista Daniele Carnacina vent’anni prima dell’inizio di questo Paradiso delle signore: evidentemente gli avevo lasciato un buon ricordo. Mi ha chiamato Carnacina, poi anche il produttore Gian Andrea Pecorelli. Hanno detto che c’erano diversi nomi in ballo, poi hanno scelto me. Comunque anche dopo la scelta, ho dovuto fare tre provini.